05 novembre 2003
You've zero privacy anyway. Ma lo SPAM che cosa c'entra?

Il nuovo Codice contro lo Spam

Sulla normativa in tema di spamming la legge c'è in Italia da anni (uno dei pochi Paesi al mondo), ma solo pochi ne conoscevano veramente i dettagli. Il rinnovato dibattito di questi giorni in tema di spamming, motivato dal crescere di junk mail (mail spazzatura, spesso 'dotata' di virus, ormai un 'cult' quelle di pseudo-Microsoft) e dall'introduzione della "Directive on Privacy and Electronic Communications" (direttiva 2002/58/EC) è sfociato nella nuova normativa italiana, il cosiddetto 'Codice' che entrerà in vigore il primo gennaio 2004. Le pagine del Codice stilato dal Garante sono numerose (143), e solo pochi articoli sono dedicati al nostro focus. Per semplicità, analizzeremo quindi il contenuto di un agile comunicato stampa pubblicato di recente (3 Settembre 2003) sul sito del Garante della Privacy (www.garanteprivacy.it).

Il titolo a cui è linkata questa press release del nostro Garante recita: 'Lo spamming a fini di profitto è un reato'; la frase appare immediatamente singolare. In primis è difficile pensare che sia mai esistito uno spam non motivato da ipotesi di profitto, ma, cosa ben più strana, sembrerebbe che lo spam NON a fini di profitto sia invece consentito dalla normativa. Diciamo subito che non è cosi.

Lo spam è considerato più grave nei seguenti casi:
• vendita di servizi o prodotti
• tentativo di danneggiare il mittente
• invio 'massificato'
• difficoltà o assenza di procedure di rimuoversi dalla lista
• assenza di mittente o mittente fasullo
• reiterazione dell'invio al medesimo indirizzo di posta

Quando possiamo parlare di spam, a prescindere dalla gravità dello stesso? La definizione del garante è indiscutibilmente molto 'allargata'. Viene considerato spam l'invio di e-mail non richieste da parte del destinatario. Per inviare una qualsiasi e-mail a qualsiasi indirizzo di posta elettronica è necessario 'chiedere il permesso' ossia, come si legge sul sito del Garante, 'è necessario il consenso informato'. Riportiamo alcune frasi del comunicato del 3 settembre scorso:

"è necessario il consenso informato del destinatario. Gli indirizzi e-mail recano dati personali e il fatto che essi possano essere reperiti facilmente su Internet non implica il diritto di utilizzarli liberamente per qualsiasi scopo, come per l'invio di messaggi pubblicitari: in particolare, i dati di chi partecipa a newsgroup, forum, chat, di chi è inserito in una lista anagrafica di abbonati ad un Internet provider o ad una newsletter, o i dati pubblicati su siti web di soggetti privati o di pubblici per fini istituzionali. Gli indirizzi e-mail, insomma, non sono "pubblici" nel senso corrente del termine".

Cominciamo con l'analizzare lo stralcio succitato:

è necessario il consenso informato; di primo acchito viene da chiedersi: 'ma come posso avere il consenso se non posso scrivere al destinatario per chiedere il consenso medesimo?'; sembrerebbe una delle migliori aporie sofistiche... La risposta apparentemente è semplice: con qualsiasi mezzo, ma non attraverso la posta elettronica. Con il telefono o con la posta fisica, per esempio. E' evidente che questo è un ostacolo enorme per chiunque e per diversi motivi:

1) molti siti non hanno indicati chiaramente numeri di telefono o indirizzi fisici;
2) il possibile 'disturbo' arrecato via telefono è ben più grave rispetto a una e-mail in formato testo; utilizzando il telefono sono coinvolte più persone (centralinista, segretaria, responsabile);
3) la posta fisica ha dei noti problemi di lentezza e spesso capita che non venga consegnata al destinatario;
4) telefono e posta sono molto più costosi dell'emailing (riprenderemo in seguito questo punto, che è fondamentale)*.

Una breve digressione; il fatto che i recapiti e-mail non siano chiaramente indicati in un web site stimola maggiormente la 'curiosità' e forse l'abuso di dati personali rispetto a un semplice invio a info@nomedelsitodacontattare.it. Chi non trova un indirizzo fisico su una pagina web può accedere al nome del titolare grazie www.nic.it (o sulle pagine di qualsiasi registrar autorizzato). Sul Nic può rintracciare indirizzo fisico, numero di telefono e di fax del titolare. Posto che per i domini di primo livello .com i dati sono spesso fasulli (proprio per motivi di privacy), è evidente che in questo caso i dati personali del proprietario del sito sono molto più esposti che con un semplice invio alla classica info@nomedelsitodacontattare.it. A questo si aggiunga il fatto che spesso i dati, anche quando veritieri, non sono aggiornati. Se vendo la mia società oggi stesso (società proprietaria del dominio di un sito) e il trasferimento di proprietà non viene comunicato alla Naming Authority italiana, il Nic riporterà sempre il mio indirizzo, numero di telefono etc. Vale forse la pena di osservare che molti stati esteri non pubblicano alcun dato sui titolari e questo proprio per difenderne la privacy. Chi vuole contattare il sito scrive agli indirizzi indicati. Semplice.



* Il motivo del 'costo' a carico del destinatario, che invertirebbe le regole classiche di ogni medium one-to-one, è di fatto poco cogente; negli ultimi mesi esperti e sedicenti esperti si sono impegnati a calcolare quante ore di lavoro vengono globalmente perdute dagli abbonati a servizi di posta elettronica per distinguere le e-mail 'buone' da quelle 'cattive'. Si parla di Billions $. Posto che queste statistiche sono poco verificabili, vale comunque la pena di dire che, in qualsiasi azienda, il costo derivato da un 'disturbo' (e il direct marketing via telefono certamente può essere considerato fonte di distrazione e disturbo) deve essere calcolato non tanto come costo monetario necessario per scaricare i messaggi di posta elettronica, quanto piuttosto come 'costo opportunità'. Chi è occupato a 'combattere' contro il marketing diretto viene senza dubbio distratto dalle sue normali occupazioni. Il discorso vale quindi per qualsiasi forma di direct marketing e non solo per l'e-mailing.

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